Un viaggio lungo tre secoli – Uomini e bestie senza confini – “Non
siamo italiani?” Ventidue chilometri per la pensione – Con la
neve l’acqua da bere.
POGGIO UMBRICCHIO, un’ora e più di cammino, lungo la mulattiera
solitaria e fangosa. Poi, finalmente, siamo in quel paese che
sovrasta, antico e solenne come rudere d’un castello medioevale,
il mostro
d’asfalto della “statale 80”.
Sembra assurdo, eppure si tratta di un bel tuffo nel tempo e nelle
“dimensioni” con cui siamo abituati a misurare l’esistenza degli uomini.
Da Teramo a Poggio Umbricchio: un viaggio lungo almeno tre secoli.
Andateci “raccomandazione per i politici che, adesso, mostrano particolare
interesse per la giustizia sociale” e vedrete che in queste contrade,
almeno trecento anni sono passati inutilmente.
Poggio Umbricchio vi presenta subito
il proprio volto: una umanità all’insegna
della fatica; anche andare a passeggio è una fatica. Le strade
interne sono strette e difficoltose, come le rocce del Gran Sasso.
E’ un paese antico solitario, alla sommità d’una collina
franosa e sterile, strapiombante sul nastro lontano (ancora
lontano!) della
statale L’Aquila – Teramo.
Le case si confondono con le stalle: sono basse, i muri lacerati
come i vestiti dei tanti bambini che incontriamo per le strade;
le porte
delle dimore sono piccole, come i pertugi per le bestie.
Anche in queste case,
a Poggio Umbricchio, le differenze
tra gli
uomini e
gli animali
quasi si annullano. Dalla soglia d'una di queste stamberghe,
un vecchio nero ed immobile ci investe: « Non siamo italiani noi? Non c'è Poggio
Umbricchio sulla carta d'Italia? Ho 72 anni, 37 mesi di fronte nella
prima guerra mondiale 22 km. per andare a prendere la “grande” pensione
fino a Nerito, quando la neve e il fango non ci seppelliscono... Non
venite a chiederci di votare, adesso! ».
Il
vecchio emerge dal buio della sua povera casa e racconta
la propria storia. Adesso ci
viene
incontro; finalmente ha
capito
che non siamo
attivisti politici, uno dei tanti che quasi tutti i partiti
hanno spedito sul posto, dopo il «gran rifiuto» della popolazione per
le votazioni del 28 aprile. Il vecchio che protesta si chiama Federico
Mazzetta: la sua vicenda è uguale a quella degli altri abitanti,
si identifica con la storia di questo paese isolato, dimenticato tagliato
fuori. « Non voteremo - aggiunge il vecchio
- Niente siamo e
niente vogliamo rimanere ».
Beppe Monti, con la diabolica
Rolley-Flex. registra, intanto,
le immagini della miseria antica
del paese. Giulio
Forlini, un amico della «spedizione giornalistica», ci
invita ad osservare certe realtà che ci circondano, quasi ci
trovassimo in un mondo fuori del nostro tempo. Qui, infatti, tutto è avvenuto
inutilmente, nel mondo: civiltà, progresso,
tecnica sono parole nuove, prive di senso. Per
le strade, dentro
le case povere
ed ospitali,
sul volto degli uomini e di tutti abbiamo letto
il dramma di Poggio Umbricchio: il dramma della
miseria
dell’abbandono.
Siamo in un paese dove tutto appare inutile,
anche la protesta. Gli abitanti, compatti, ai
limite
della sopportazione,
in coro ripetono: « Non
voteremo » Ma a che serve? « Si tratta – direbbe un galoppino
di partito – di una protesta politicamente
irrilevante ». Solo
350 sono gli abitanti 190 i votanti e 50 gli emigranti. Una voce abbastanza
modesta che si perde nel deserto interminabile che circonda Poggio
Umbricchio e la sua gente. Oltre questo « muro » duro
e invalicabile, rimane il senso della pacifica
rivolta, resta la sfiducia.
« E' stata una decisione spontanea di tutti – dicono – Non
ci sono stati sobillatori ».
La politica non c'entra insomma. Il parroco don Luigi Cherubino
il rappresentante della DC Vincenzo Di Cesare e l'ufficiale
postale Ezio Ragusi ne danno conferma.
Una sfiducia, quella
di Poggio Umbricchio verso i partiti
e
verso gli uomini.
Non hanno avuto fortuna, sotto
nessuna bandiera.
Nel 1953 votarono
in blocco per il PCI e il paese restò all'anno zero,
come oggi, dopo aver dato il voto – nelle elezioni del
'58 – alla
DC.
« Per andare a prendere l'acqua – è una vecchia che parla – debbo
camminare un'ora. Costa più cara, l’acqua che il vino, qui. Quest'inverno
abbiamo preso la neve dei tetti e abbiamo dovuto scioglierla sul fuoco, per bere ».
Chiediamo
il nome alla vecchia Si chiama
Rosalia Evangelista; ma prima di rispondere,
ha un dubbio e domanda: « Ma si può dire il
nome? Fa che sì va
in galera ». Per le strade di Poggio Umbricchio abbiamo
incontrato anche il fantasma della paura: la paura di dire
perfino che non c'è l'acqua
per dissetare l'esercito, davvero numeroso, di questi bambini
che riempiono le viuzze ed i vicoli.
Luigi Evangelisti sbraita al nostro passaggio: « Hanno
messo la libertà, ma la libertà di pagare
le tasse ».
Un altro si fa avanti per riferirci l'imbarazzo
del parroco che arriva
in paese, tempo permettendo due volte alla settimana.
Gli
avrebbe confidato il sacerdote: « Mi
si stavano litigando i candidati onorevoli.
Non sapevo chi scegliere. Finalmente avevo deciso
per l'onorevole... E adesso che avete
stabilito di non votare, come farò? »
E' la volta d'un padre di famiglia preoccupato. « Qui, non si
va più avanti - dice - per i casi
di febbre maltese. Il medico ha detto che dipende
dal latte delle capre; ma non ha detto che è piuttosto
il latte della terra che è nell'acqua che
beviamo »
A Poggio
Umbricchio è già notte.
Nella buia osteria del paese troviamo
Gino Paolini del partito di Saragat,
circondato dai
capi-famiglia, che sono anche i capi della
rivolta. Paolini sta combattendo la
sua battaglia contro la diffidenza
e la sfiducia di questi uomini
stanchi e muti. « Voi mi conoscete
sono uno i dei vostri. Dopo il 28 aprile
sapete
dove trovarmi... »
Ma le promesse, le buone parole, i piani
avveniristici non servono a placare la fame
di giustizia
e di lavoro che, attanaglia
questa
gente. E' sul terreno delle realizzazioni
concrete ed immediate che attendono
una risposta, un segno di solidarietà.
il giornalista Marcello Martelli