Presentazione:
Con il ritrovamento
dei suoi ordinamenti civili, trascritti nel 1571, il
paese
di Poggio Umbricchio esce
dall'anonimato ed acquista un
suo carattere e una sua fisionomia.
Come avremo modo di dimostrare,
nel passato Poggio Umbricchio aveva una notevole
importanza
non solo nell'ambito commerciale della provincia di Teramo,
ma anche nell'ambito del sistema militare del Regno di
Napoli, costituendo la punta più avanzata dell'intero
schieramento difensivo.
GLI STATUTI DI POGGIO UMBRICCHIO
Poggio Umbricchio è uno dei pochi, fra i paesi
che un tempo formavano il Comune della Montagna
di Roseto nell'Abruzzo teramano, ad aver conservato
nel suo seno
tracce concrete, se pure discontinue, della sua
presenza nella storia.
La prima testimonianza è costituita da una pietra
sulla quale è inciso un castello aperto
e merlato sovrastante un'aquila maestosa in atto
di difendere una
docile e indifesa colomba.
In un'altra pietra è scolpito un grifone
rampante con il capo, il collo, il petto,
le ali e le zampe anteriori
di aquila; gli orecchi di cavallo; il ventre,
le zampe posteriori e la coda di leone. Ai quattro
angoli si notano
altrettanti simboli nei quali sembrano potersi
riconoscere, in alto, due teste di animali,
probabilmente una volpe
e un leone, e, in basso, un boccale con un
fiore e un rosone lavorato.
Nello stesso Vicolo Storto è murato un altro
bassorilievo, simile al precedente ma più elaborato
e complesso. Al centro della grande pietra
campeggia
un leone rampante,
che mostra con la zampa anteriore destra
un ferro di cavallo; in basso, a sinistra,
un puttino orante
e sulla
destra un agnello con banderuola al vento
sormontata dalla croce di Malta.
Sulla sommità della parete esterna di un'altra
abitazione sono raffigurati due piccoli
leoni, oramai consumati dal tempo e dalle molteplici
calamità atmosferiche.
In
una lunga pietra rettangolare in Via della Rocca sono
incisi due volti umani ai lati
di un colle sormontato
da una croce.
Il monogramma di
San Bernardino da Siena, un cerchio con il sole
raggiante, nel cui mezzo sono
incise le lettere I(esus)
H(ominum) S(alvator), è visibile
nel portone d'ingresso
d'un'antichissima casa.
Altre corpose indicazioni si trovano
nella Chiesa parrocchiale dedicata
a Santa Maria
Lauretana,
nel cui interno si
conservano una preziosa pietra miliare
del quarto secolo dopo Cristo e un
dipinto seicentesco
nel quale
compare uno stemma araldico, di particolare
importanza ai fini della nostra ricostruzione
storica. Sovrapposto
ad un'aquila bicipide, è disegnato,
uno scudo con un leone rampante che
sorregge sopra
la propria testa
un castello dorato a mo' di corona.
Sull'architrave del portale d'ingresso è incisa
la data 1570, cioè la più antica
tra quelle che ancora si possono
leggere nel paese.
Le testimonianze visive sono tutte
qui, pochissime, imprecise
e con vuoti secolari paurosi.
Sotto questo profilo risulta emblematica
la stessa
Chiesa nell'ambito
della quale
d'un tratto si passa dall'età romana
a quella rinascimentale, dal
periodo barocco a quello Ottocentesco.
Dal paesaggio geografico e dall'interpretazione
del complesso delle testimonianze
araldiche riferite, in un costante
raffronto contestuale e critico
con
le fonti dell'epoca, dipende la
storia di
Poggio Umbricchio.
L'aquila e la colomba, poste
sotto il castello, il grifone
rampante,
inciso nel mezzo,
tra la volpe, il leone, il
boccale e il rosone, oltre le
diverse posizioni in
cui trovasi inquartato il leone,
denunziano chiaramente l'immagine
di un paese antico e magnanimo,
amante della vita semplice, coraggioso
nelle
avversità e pronto a salvaguardare
la propria libertà nei
confronti dei vari signori che
invano cercarono
di farne
un feudo passivo.
Sull'antichità del
paese non vi sono dubbi e ove non
fossero sufficienti
i pochi
elementi
raccolti si
potrebbe ricorrere all'etimologia
del
nome.
Secondo Pancrazio Palma la
nascita di Poggio Umbricchio
potrebbe essere
fissata nel
periodo immediatamente
precedente alla conquista sillana
della provincia aprutina quando
venne in uso il sistema di
affidare ai soldati o ai municipi
le terre
coltivabili
e alla repubblica
romana
i terreni
sterili.
«
Può essere che dopo tal censimento i nostri
monti cominciassero a sboscarsi ed abitarsi;
poiché i nomi di molti villaggi
ivi sorti e di varie contrade rammentano le preesistenti
selve
ed il loro abbattimento per ridurre il suolo
a coltura od a prato: tali Pastignano (pascolo
di ghiande), Roseto,
Cervaro, Crognaleto, Frattoli, Cesa Castina ed
altre Cese, Abetemozzo, Cerqueto, Verneschi (alberato
di pioppi),
Settecerri, Pascellata, tre Macchie, Valle Vaccaro,
Alvi, Castagneto, Nocella, Ceraso, Olmeto, Fajeto,
Pomarolo,
Elce di Roseto, Faugnano. Quest'ultimo però forse
deriva da Fauno che poteva avere un tempio in
quei grandi boschi. Non può negarsi intanto
-prosegue concludendo Pancrazio Palma - che vari
nomi furono tratti dal greco,
come Nerito (luogo oscuro), Iscarelli da Ischiros
(luogo alto e forte); forse Ciarelli da Cieros
(luoghi ombrosi),
Comignano da Comao (produttore di erbe) ».
La colonna miliare, che ora fa da base
ad una pregevole acquasantiera
nella quale si legge
l'augurale scritta: « discendat
in hanc plenitudinem fontis virtus
Spiritus Sancti », è importante
per diversi motivi. Innanzi tutto
perché,
il numero CIIII che si legge
in basso indica la distanza che
all'incirca
corre tra Roma e Poggio Umbricchio,
calcolando le miglia secondo
l'antico valore, in secondo
luogo perché figurano
i nomi di tre imperatori romani
del IV secolo che furono con
molta probabilità gli
stessi che restaurarono o costruirono
ex novo nel 364
la nuova strada. Non sappiamo
per quale ragione, se commerciale
o militare, Flavio Costantiniano,
Valente e Graziano diedero
vita alla nuova
arteria, sicuramente per accorciare
i tempi dì percorrenza
tra Roma e l'Abruzzo. Secondo
Pancrazio Palma, i romani « conoscendo
ben lunga la salaria per arrivare
al suo termine, le saline di
Atri, una scorciatoia aprirono
nelle
vicinanze
di Amiterno per la valle ove
sorge il Vomano; e profittando
della gola per la quale detto
fiume
s'immette nella nostra
provincia, tutt'ora chiamata
Tre Termini, perché ivi
tre pertiche confinavano, la
Sabina, la Vestina e la Pretuziana,
come poi vi toccarono tre diocesi
e quindi
tre contee, lungo la sponda sinistra
che guarda
il mezzodì la
continuarono fino ad un miglio
e mezzo da Tottea. Ivi su di
un ponte, del quale resta sulla
sponda
destra un
pilone, formato senz'aiuto di
cemento, con grossissime pietre
riquadrate (qualcuna di palmi
15 di lunghezza
per 3 e 4 di grossezza), la strada
ripassava sulla destra vicino
Nerito, e quindi di nuovo
a sinistra presso Poggio
Umbricchio, dove era la colonna
miliare CIIII, attualmente dentro
la chiesa. Ciò indica
che la strada fu regia o consolare,
tanto più che
la colonna medesima trovasi dedicata
agli imperatori Valentiniano,
Valente
e Graziano, sotto i quali forse
fu posteriormente restaurata,
giacché i residui di ponti
mostrano nella loro solidità un'epoca
più remota sulla dritta
ripassava del fiume, mediante
altro ponte, del quale anche
sussiste una spalla. Nel tenimento
di Fano di Adriano,
allora più vicino al Vomano,
si possono discernere i tagli
operati dalla mano dell'uomo
nelle vene di tufo che la via
doveva attraversare. Chi però voleva
venire a Montorio pare che da
Poggio Umbricchio potesse giungervi
per una strada, di cui resta
un frammento all'oriente
di detto villaggio. Giunta a
Montorio, un tronco distaccavasi
per Interamnia, lungo una valle
che opportunamente taglia
la collina, riunisce il bacino
del Vomano a quello
del Tordino, e della quale ora
profittasi per la nuova strada
circondariale, mentre l'altro
ramo proseguiva
sino al duplice emporio del Vomano ».
Con la nuova sistemazione stradale,
voluta dai tre imperatori, quasi
certamente Poggio Umbricchio
acquistò una
posizione di rilievo anche se,
per carenza di testimonianze
sicure,
non siamo in
grado di documentarla.
Sembra che il conseguito prestigio
abbia trovato il paese
impreparato e le sue
strutture inidonee
a memorizzare
gli avvenimenti più importanti
della sua vita.
Da questo momento in poi è la Chiesa che sul piano
civile, nonostante le difficoltà e oltre l'evangelizzazione,
si assume il difficile compito di garantire la continuità storica.
In genere non fu agevole per il cristianesimo conquistare
al Vangelo le popolazioni montane e qui più che
in ogni altro luogo. Una testimonianza dello spessore
culturale romano nella zona è offerto
proprio dal ricordato puttino
seduto ai piedi del leone,
in quanto mentre mostra
al visitatore le mani congiunte
nell'atto
di pregare, nella parte
inferiore
del corpo pone bene in
evidenza gli organi
genitali.
L'acculturazione cristiana
nell'alto medioevo, con
molta probabilità,
dovette procedere sulla
linea direttrice di una
notevole
tolleranza, evitando, per
quanto era
possibile, lo sradicamento
totale e immediato dei
residui pagani
e
precristiani.
Molti boschi sacri agli dei,
esorcizzati, divennero sedi
di Chiese, parecchie
are pagane furono
utilizzate come
altari cristiani e molte pietre
lavorate assunsero, in una
diversa collocazione,
un particolare
significato.
La pietra miliare, più volte ricordata,
indicava la distanza tra Poggio Umbricchio e
Roma. Roma era la
capitale dell'Impero, ma anche la sede del Papato,
per cui l'acquasantiera giustapposta non costituiva
una rozza sovrapposizione sì bene
il necessario complemento
dal valore spirituale fortemente
terapeutico.
Andare dal Papa era un
atto di devozione, ubbidire
ai
suoi ordini
un segno
di sottomissione, ma
assai più importante
era la purificazione dell'anima
prima di intraprendere
il viaggio per chiedere
e ricevere
successivamente
l'apostolica benedizione.
I riti magici di contenuto
fallico, singolarmente
presi, erano riprovevoli
e peccaminosi,
considerati invece
in un'ottica esistenziale
potevano assumere il valore
di
offerta e di ringraziamento.
In quelle difficili, ostiche
e impervie
zone
montane dove la morte
mieteva vittime
numerose e innocenti, specie
tra i bambini, la facoltà riproduttiva
rappresentava la benedizione
divina, per la quale
non bastava credere, ma
bisognava anche pregare.
L'autorità civile
compare nell'ottavo
secolo, in pieno feudalesimo,
nell'ambito
dei rapporti
di forza
fra gli Stati italiani
e delle lotte fra
questi e l'Impero.
I primi nomi a emergere
sono Riccardo e Andrea
di Poggio
Ulbricchio o « Imbrecchie » che nel 1239
figurano come custodi di alcuni prigionieri lombardi
per incarico di Federico II°, mentre, quarant'anni
più tardi, nel 1279, essi appaiono nella veste
più prestigiosa dei feudatari della vicina Altavilla.
Titolo che conservò anche Iacopo del Poggio « de
Ambricolo » (1316).
Con Francesca «de Podio» il paese imbocca
una fase di stasi, poiché la signora, vedova di
Matteo di Leognano, secondo i registri angioini del 1337,
risulta venditrice dei feudi di Altavilla, di Caprafico
e anche di Poggio Umbricchio altrimenti dette «de
Umbraculis ».
Dopo Giorgio «Ciantri» di Poggio Ramonte,
accusato di essere un ricettatore di malandrini, compare
Gianfilippo «Georgii de Podio Ramontis» (
Senarica), che partecipa alla tregua tra le fazioni di
Renato d'Angiò e di Alfonso d'Aragona, in qualità di
signore di Poggio Umbricchio. Questi, però,
nel 1444 vende agli Orsini
di Manoppello una parte
del castello
disabitato di Chiarino
in Valle Castellana
di cui era utile feudatario.
Nel 1465 risulta feudatario
di Poggio o meglio
di «Podii
Morechii» il
figlio di Gianfilippo,
un certo Ciantò (Ciccantonio)
che condivide la proprietà con
Francesco di Angelucci,
cugino di Giacomantonio.
Con la dinastia dei
Ciantò o Ciantro,
Poggio Umbricchio riconquista l'antico prestigio.
Giampietro, Giacomantonio,
Francesco di Angelucci e Giamberardino di Ciantò governano
con autorità e
sicurezza anche i feudi
di Poggio
Ramonte, di Altavilla
e la restante
parte
di Chiarino.
Con un'altra Francesca,
questa volta figlia
del ricordato
Giamberardino, che
nei «Quinternoni» compare
feudataria pure di Villa Vorano, oltre Altavilla e Poggio
Ramonte, Poggio Umbricchio sembra tornare quasi nell'anonimato.
Il castello, definito da Nando Poli «baluardo indomito
agli appetiti delle signorie feudali succedutesi alle
invasioni barbariche e rifugio di umbri annidatisi lassù» passa
sotto la signoria di
un estraneo, a causa
dei forti
contrasti
e delle profonde
gelosie insorte con
la vicina Senarica.
Quest'ultima, approfittando
del matrimonio di Francesca
o Faustina
di Ciantò con Angelo Castiglione, si
liberò nel 1507 dei poggesi, ponendoli alle dipendenze
della intraprendente famiglia pennese che, pur nell'ambito
dello « Stato di Atri »,
andava progressivamente
consolidando la sua
influenza politica
ed economica
in danno della potente
dinastia
degli Acquaviva.
Il nuovo acquisto incrementò ulteriormente l'importanza
della famiglia Castiglione, che già possedeva
i feudi di Pianella,
Penne, Castiglione
Messer Raimondo e Castiglione
della Valle, in quanto
Poggio Umbricchio
contribuiva a perfezionare
il controllo su quella
parte della regione
che, secondo il Pieri,
nel Cinquecento
costituiva il saliente
avanzato dell'intero
sistema difensivo
napoletano di cui
dovevano tenere conto
gli invasori
che intendevano entrare
per la via Latina (Frosinone).
I dissidi e i contrasti
con Senarica rientravano,
quindi,
in una prospettiva
politica più complessa e meno
appariscente agli occhi delle semplici comunità agricole-pastorali.
A ingigantire la diaspora, però, non mancò,
da una parte e dall'altra, l'insofferenza per
una situazione economica non prevista, la cui
origine risiedeva
più a monte
del matrimonio.
Nel documento informativo
del 1465, allorché si
descrivono le proprietà di Francesco e di Gianfilippo
Ciantò, si parla anche del «Castrum poij
Ramontis dirutum et inabitatum» posseduto «in
comuni sine vassalli» .
Il fatto che Poggio
Ramonte «seu Senarica» fosse
diruto, inabitato e privo di vassalli fece sì che
i poggesi si adoperassero per renderlo efficiente, ospitale
ed abitato, rilanciando un'istituzione particolarmente
gradita ai viaggiatori ed ai commercianti. Il ricordo
del privilegio della «casa franca», pervenuto
a noi attraverso un'iscrizione incisa sull'architrave
di una casa, è in parte offuscato dalla difficoltà d'interpretazione
del testo. Alcuni leggono: «Casa Franca dal Re
Innaferno», altri «Casa Franca del Re Inneterno».
Noi pensiamo, viceversa, che la lettura più giusta
sia questa: «Casa Franca da ire innAterno».
Nel primo caso infatti dovremmo supporre la presenza
di un re dal nome Innaferno, che nella realtà non
esiste; nel secondo caso ad una particolarità giuridica,
in quanto i re non concedono mai in «eterno» qualcosa,
ma sempre «in perpetuo», mentre nel terzo
caso l'epigrafe avrebbe un senso in quanto la zona veniva
dichiarata «franca» per quanti si recassero
o provenissero dal fiume Aterno. Il salvacondotto, in
sostanza, garantiva la libertà di
commercio e di transito
fra lo Stato Pontificio
e il
Regno
di Napoli.
Il distacco da Senarica,
indubbiamente significò una
diminuzione di prestigio per Poggio Umbricchio, ma anche
la fine delle alterne signorie e l'inizio di una maggiore
stabilità politica.
I poggesi, infatti,
ottennero, nel 1571,
dopo un lungo
braccio di ferro
con la
famiglia Castiglioni
il rispetto
delle libertà giuridiche ed economiche
che godevano da tempo immemorabile.
Gli « Statuti»,
sono stati, fino all'eversione della feudalità (1806),
un valido punto di riferimento fra i « naturali » e
il feudatario, fra
il castello e il potere
centrale napoletano.
Non fu così per Senarica. L'alienazione di Poggio
Umbricchio si rivelò un grave errore di prospettiva
politica. Quando i senarichesi si resero conto dell'inevitabile
decadenza, per l'avvenuto ridimensionamento del paese,
corsero ai ripari, ma era già troppo
tardi.
Dopo una lunga e perseverante
lotta per riavere gli
antichi privilegi,
incautamente
ceduti
ai nuovi feudatari,
essi
ottennero dal marchese
de Mondejar una nuova
investitura (29 marzo
1577), ma come
scrive
Raffaele D'Ilario,
non riuscirono « per un terzo e più di secolo
a renderla operante, forse per il territorio rimpicciolito
e forse perché la investitura diversa dall'antica
non si attagliava alle attuali esigenze dei notabili
e della loro comunità. Quindi, per riottenere
i primitivi privilegi si rivolsero al Vicerè Conte
di Benevento, al quale, oltre che al Consiglio
del Collaterale, si faceva capo per qualsiasi
provvedimento, e il
28 febbraio 1610 ottennero il nuovo diploma di
investitura feudale, dato a Napoli il 5 dello
stesso mese, per dieci
capifamiglia con tutti i diritti, coi quali era
stato posseduto dai loro padri in virtù dell'altra
investitura spedita il 29 marzo 1577 dal marchese
di Mondejar.
Nel diploma si disse che i novelli investiti
erano succeduti agli antichi, jure longobardorum;
che
l'investitura s'intendesse
perpetua, in favore di tutti i discendenti delle
dieci fmiglie, fidelitate tamen Regia,
feudali quoque servitio et adhoa semper salvis ».
Con
gli «ordinamenti» del
1571 Poggio Umbricchio
normalizzò i
rapporti sociali,
giuridici ed economici
con i nuovi
feudatari.
Il documento, che ha
un fascino particolare
sia
dal punto
di vista linguistico
che sotto il profilo
strutturale, è purtroppo
illeggibile in alcune parti proprio a causa dell'usura
del tempo. La lingua usata è quella di
transizione. Molte parole nella struttura e nelle
desinenze risultano
ibride, con un misto di latino e di volgare,
di rara efficacia semantica, e sembrano riflettere
la tormentata
situazione orogenetica della zona, chiusa ai
contatti umani per diversi mesi dell'anno e agli
apporti culturali
delle grandi città.
La grafia, l'inchiostro
usato, le abbreviazioni
adoperate
costituiscono
una inequivocabile testimonianza della
preparazione
dello «scrittore di
commissione» particolarmente
esperto nel condensare
in pochi segni
complessi modelli
comportamentali
e intricate norme
giuridiche.
Dal punto di
vista contenutistico
gli Statuti denunciano
una vita relativamente
evoluta,
dignitosa e improntata
a un sano spirito
comunitario.
L'osservanza
del riposo
festivo era attenuato
dallo
spirito di
solidarietà nell'ambito
del quale si
poteva «tirare legna grosse et altri
pisi che per uno homo non se po tirare. Et per le diete
feste sia licito ad ciascuno che vola aiutare altri per
la more de dio con le proprie bovj et asini et macenare» tranne
che «la domenica et le feste del signore
et de Santa Maria che non se possa macenare
et fare altra cosa».
L'intero documento è ispirato
a grande saggezza
e moderazione.
Sembra quasi
di intraveder
nel reticolato
delle diverse
rubriche la presenza
di un
archetipo di
tipo biblico.
A Poggio Umbricchio
la massima autorità era il
Giudice, da lui dipendeva l'applicazione della legge,
di regola la domenica. e la direzione politica della
comunità.
Tutti gli dovevano
rispetto
come lui
ai suoi concittadini.
Una volta
eletto doveva
giurare «de
fare lo offitio derittamente ad honore de lo signore» senza
alcuna parzialità. La carica non era ad honorem,
poiché era stabilito che chi «andasse in
servitio del comune debia haver per omne dy solly X et
se va a piedi carlini uno per lo spatio de otto miglia
in se più solli V. Et se ly averasse
alcuno danno sia alle spese del communo».
Una particolare
procedura era prevista
per la
elezione e l'ufficio
del Camerlengo. « Item
facimo et ordinamo che lo offitio de li Camorlinghi
si debia ordinare et
creare in quisto modo videlicet che se habia
da elegere una persona del detto Castello del
poyo et quilly imbossolare
et habiare da sbossolare da la detta bossola.
Et quillo che escera habia da exercitare lo
offitio del Camorlingato
per tempo de quattro mesy. Et cosy habia da
tenere li nove persone che sarra imbossolate
per fine che durara.
Cioe quattro mesi per uno ut seguitur finiendo.
Et quando sarra finite se debia elegere ly
altry ut supra. Et exquire
come de sopra. Ancora che ly dittj Camorlinghi
in lo tempo del suo offitio non possano andare
scalzy cioe
senza scarpe et senza calze secondo la sua
facolta. Et lo qualunque contra farra overo
recusara sia tenuto per
pena de solly venticinqui».
Al Parlamento spettava,
non solo, l'elezione
del Giudice
e del
Camerlengo, ma
anche l'elaborazione
di nuove
norme comunitarie « tutte le riformanze — è ribadito
in un articolo
— che se farla in parlamento
per utile del communo, sia tenuto per Statuto
per sì che
non si delibera in contrario », e chi veniva accusato
ingiustamente, sia che fosse forestiero o cittadino,
doveva essere difeso a spese « de lo communo ».
Nella compostezza
dei singoli capitoli,
così privi
di angolosità umane
e giuridiche,
probabilmente
pesava il ricordo
di un lugubre
evento. Che cosa
sia accaduto
al paese
negli anni immediatamente
precedenti alla
redazione degli
Statuti
non
siamo riusciti
a individuarlo
con
esattezza.
Sicuramente qualcosa
di grosso come
un terremoto,
una carestia
o una
grave epidemia,
certo è che
nel capitolo
dei «Testamenti» si
parla con tristezza
de' «l'anno de la grande mortalità».
L'evento fece
saltare il rispetto
di
alcune norme
in materia
testamentaria
e patrimoniale.
Si
stabilì,
infatti, «che le testamenta facte ne l'anno de
la grande mortalità per ly qualy siano tre testimoni
fide digni per vigore di questo capitolo sia tenuto rato
et fermo come se fosse con omne debita solennità munita
et fatta ». Per quanto riguardava le proprietà venne
accettato il principio che « se alcuno o alcuna
poxedesse nel pogio o suo termino alcuna cosa stabile
iusto titolo et bona fide per spatio de dece anni et
fosse ad ciò chiamato ad corte non sia tenuto
de pagare alla corte de pena solly XX. Etcepto ecclesie
orfani et popilly alli quali sia lecito de omne tempo
usar la sua rasione».
La diminuita
disponibilità economica provocò una
modificazione delle norme suntuarie, in quanto si stabilì che «quando
se fa ly cristiani quelly che sono compari non possa
donare se non uno cannelotto, una centura et una camisia»,
analogamente «se alcuno o alcuna persona de lo
poyo vorrà ad fidare alcuna donna de casa sua
per lo dy de la affidatione de essa non possa dare a
magnare ad quilly che verra per parte de lo marito se
non rossa pasta et non degia mettere tavola (...) sia
lecito ad ciascuno che la sera de quillo dy retenere
in casa sua lo marito de lo sposo de la sposa con uno
compagno o vero doy et dare ad ipso cio che vole».
Il dolore subito,
comunque, non
trasformò i poggesi
in umili sudditi dei feudatari, anzi l'evento risvegliò in
molti la non sopita origine longobarda, per cui Orazio
Castiglione fu costretto, nel 1573, a riconoscere loro
il diritto alla libertà di
commercio, di
cui sempre avevano
goduto,
e il
diritto di legnare
come era nei
patti con la
vicina Senarica.
«
Item statoimo et ordinamo», scrisse il barone in
una delle varie aggiunte, «che nello nostro castello
dello pogio possino ogni persona liberamente comprare
et vennere senza ricadere nessuna concessione per ragione
de jus concedo, et per che in detto Castello non ce ius
concedo per essere feudo et per questo ordinamo al nostro
capitano che per tale causa non sia nessuna persona alcuna
in tanto ardire e per nostra libertà».
Con un altro
placet del 12
giugno 1602
lo stesso
Orazio
si dichiarò «contento che loro possino spartire
secondo le loro occorrente» i
frutti della
montagna.
Probabilmente
e a prescindere
dalle
formule giuridiche
i locali vollero
ottenere
qualcosa che
neutralizzasse
la crescente
invadenza della «Casa Franca» del
castello di Senarica.
Il solidarismo
all'interno e
la fermezza all'esterno
permettono a
Poggio
Umbricchio di
superare notevoli
difficoltà e
soprattutto i ripetuti attacchi dei briganti nel '600
e le prepotenze baronali di cui Orazio fu il quarto feudatario
dopo Angelo, Orazio il vecchio e Gaspare. Angelo Castiglione
morì alcuni anni dopo il matrimonio, mentre Franceschina
Cicintò o Ciantò lo raggiunse nel 1558,
lasciando erede il figlio Orazio alla cui scomparsa subentrò Gaspare.
Gaspare Castiglione
pagò alla Regia
Corte il «relevo» dovuto
per «lo Castello di Poggio
Umbricchio con suoi Vassalli,
rendite, diritti, giurisdizioni
civili e criminali,
mero e misto impero e per lo
feudo di Poggio Ramonte» il
15 febbraio 1560.
Alla sua morte
l'eredità passò al ricordato
Orazio che morì nel 1664 e quindi al di lui figlio
Giovan Battista Castiglione. Nel 1665 Giovanni Castiglione
pagò, in qualità di Barone della terra
di Poggio Umbricchio il «relevo» per la morte
del padre Giovan Battista. Per la scomparsa del Barone
Giovanni, nel 1683, Nicola e Giovan Battista vengono
invitati a soddisfare le richie¬ste del fisco. L'11
settembre 1710 l'Imperatore Carlo VI con un privilegio
concede a Giovan Battista Castiglione per i meriti acquisiti
da lui e dai suoi avi e per la nobiltà della
stirpe, l'ambito
titolo di Marchese
di Poggio
Umbricchio.
In seguito il
feudo passa
ad un ramo
collaterale
della famiglia
o meglio
a un nipote,
poiché nel
cedolario di
Abruzzo Ultra
del 1766, e
precisamente
nelle provvisioni
del 1761 si
trova che Ferdinando
Castiglione,
con decreto
della Gran
Corte della
Vicaria (2
ottobre 1736)
era stato
dichiarato
e confermato
ex figlio ed
erede del suddetto
Giovan Battista
per la morte
del medesimo
avvenuta il
27 ottobre
1730, ed a
causa del passaggio
di Nicola Castiglione,
fratello di
Gio Battista,
all'Ordine
Gerosolimitano,
nonché del
passaggio di
Alessandro,
figlio sempre
di Gio-Battista
e padre
di Ferdinando,
allo
stato sacerdotale.
La disposizione,
in favore di
Ferdinando
fu possibile,
innanzitutto,
per
la legge del
maggiorascato,
introdotta
da
Camillo Castiglione
e,
in secondo
luogo, per
una deroga
al diritto
successorio
che,
mentre ribadiva
l'ereditarietà per
linea diretta,
permetteva che
si considerassero
discendenti dai
primi feudatari
i
possessori di
feudi acquistati
ove altri
non avessero
prodotto particolari
titoli da tutti
riconosciuti.
Gli ultimi
feudatari furono
Giuseppe
Angelo e poi
Giambattista
Castiglione
contro i
quali, non
solo, Poggio
Umbricchio,
ma anche Senarica,
a lungo, dovettero
lottare,
in occasione
delle leggi
eversive della
feudalità.
In un primo
momento i poggesi
ottengono di
non pagare
più alcune
prestazioni onerose, ma poi devono attendere parecchio
prima di vedere riconosciuti i loro diritti anche perché il
problema andò a collegarsi con l'altro, ancor
più grave,
della divisione
dei demani.
Il 12 agosto
1810, Bernardino
Ciccone,
nominato agente
ripartitore
dei demani
comunali,
si recò a Poggio
Umbricchio dove, sentito i cittadini e le autorità locali,
stese il verbale e ripartì senza farsi più vedere,
mentre gli abitanti erano desiderosi di risolvere
pacificamente e nel più breve
tempo possibile
le questioni
pendenti.
Risultati vani
tutti i tentativi
di conciliazione
proposti
per via epistolare,l'8
agosto
1813 il primo
Eletto, Pietro
Marini,
si
rivolse direttamente
all'Intendente
della
Provincia di
Teramo, scrivendo: «L'Eletto di Poggio
Umbricchio in nome dei capi famiglia del Comune umilmente
espone, che situato il proprio paese in mezzo a tre grandi
feudi, non è affatto preso in veduta dagli Agenti
della divisione de' Demani e non può perciò profittare
delle benefiche
leggi del Governo.
Una
popolazione povera
come
questa di Poggio
Umbricchio deve
richiamare l'attenzione
di V. S. Ill.ma
nell'attuale
circostanza di
poterle
fare del bene,
e ritoglierla
dalle
gravezze impostele
dall'ex
feudatario Marchese
Castiglione
di Penne.
Gli abitanti
di questo Comune àn avuto il diritto
di avere tutta la ghianda di due grandi selve dell'ex
feudatario, pagandola un anno alla voce più bassa
della provincia, cioè a quella del Comune di Castagna,
e l'altro anno per soli ducati dieci. A questo diritto
avendo dovuto i capi di famiglia rinunciare coll'istrumento
de' 27 novembre 1773 per non esser vessati con litigi,
e sequestri per altri oggetti, l'ex feudatario ha venduto
pesteriormente tale ghianda per ducati cento, ora più ora
meno in ogni anno. Gli abitanti àn sempre goduto
del diritto di legnare sul morto e dalla croce in sotto,
senz'esserne stati mai impediti nè molestati,
e senza nulla corrispondere all'ex feudatario. Gli abitanti àn
sempre seminato e maggesato in qualunque parte delle
terre feudali, che fosse piaciuto, senza dimandarne licenza
nè all'erario, nè al Marchese, ma pagando
ad agosto la mezza copertura, giusta il canniato. Nè un
Cittadino potea essere amosso dal terreno da
lui coltivato se da esso non fosse stato abbandonato
a tutto Natale,
dopo l'ultimo raccolto. Questo si sta esercitando
anche attualmente senza niuna novità.
Gli abitanti àn sempre avuto il diritto di pascolare
sulle terre feudali, cioè sul feudo di Vibli,
su quello di Vallecannita e su quello di Cellito, pagando
annualmente ducati diciassette. Ma il feudo di Cellito
si è affittato nell'inverno per lo più,
abusivamente, ai naturali del Comune di Cerqueto pel
pascolo delle loro capre, ed i naturali del Poggio àn
sofferto quell'abuso perchè in tempo de inverno
poco suole tal feudo esser da essi praticato. Gli alcini
del feudo di Cellito son tagliati senza riserva da chiunque
cittadino n'abbia bisogno, ed i fornaciari del Poggio
ne àn fatto sempre uso nella fornace ch'è in
confine col detto
feudo, senza
nulla all'ex
feudatario
corrispondere.
I capi di famiglia
stan pagando
cinquanta tomoli
di grano
a titolo d'enfiteusi
in forza dell'istromento
del 1773
ma al prezzo
camerale
che correa
nel tempo 1773,
cioè al
prezzo di carlini ventuno la salma. Or oggi che il grano
vale il triplo alla voce camerale o Provinciale, non è giusto
che sia continuato
il pagamento
a norma di
tale bassissimo
prezzo».
L'Intendente
di Teramo dopo
aver
chiesto
lumi a Pio
Coppa, Direttore
per la
divisione dei
demani, nell'ottobre
del
1813, e al
Giudice
di Pace del
Circondario
di Pianella,
Pietro Todisco,
il 25
febbraio 1814
dichiarò e
ordinò che « 1) Per
le terre censite
l'ex feudatario
esigga dai
naturali di
Poggio Umbricchio
lire
154 annue,
risultanti
dal ragguaglio
del cinque
per cento sul
valore delle
terre giusto
l'istrumento
del 1773,
invece dei
tomoli cinquanta
di grano,
o esigga tanto
grano quanto
equivalga annualmente
nella voce
di agosto alla
detta somma. 2) Escluse
le terre censite tutto il rimanente ex feudo
di Poggio Umbricchio si divida in
tre rate di egual bontà e valore assegnandosi
una vicina all'abitato all'Università di Poggio
Umbricchio, e rimanendo l'altre in piena e libera proprietà dell'ex
feudatario. 3) La prestazione
di lire 92,40 a titolo di fida del pascolo
cesserà dal giorno dell'accantonamento,
potendo ciascuna delle parti liberamente disporre della
sua quota, e restando con ciò sciolta ogni servitù sui
fondi ex feudali e restituita ciascuna parte
contraente ai primieri suoi diritti. 4) Il
Sig. Consigliere Ciccone è incaricato
di far eseguire l'ordinato accantonamento per mezzo dei
periti eligendi legalmente».
Quando il Ciccone
si presentò a Poggio Umbricchio
per definire la ripartizione si trovò difronte
a tante altre difficoltà che
lo costrinsero
a chiedere nuovi
ordini
all'Intendente.
« Nello scorrere il feudo dell'ex
Marchese Castiglione —
egli riassunse
in una lettera del 18 marzo 1814 — si è trovato
diviso in tre parti. Uno verso ponente chiamato Vado
Cannito, l'altro a mezzogiorno, lungo il fiume Vomano,
chiamato Cellito, e il terzo a oriente denominato il
feudo di Vibli. In mezzo a queste tre parti possiede
la Comune. Il paese è fabbricato la maggior parte
sopra il primo feudo di Vado Cannito. I cittadini tengono
poi la maggior parte delle rimesse degl'animali nel numero
di circa sedici nelle vicinanze del feudo di Vibli. Io
per portare a compimento la detta divisione col dovuto
riguardo locale, e delle circostanze, era in voto di
dare alla Commissione il quarto di qua dal fosso di Villi
per comodo degl'animali sull'uso dell'acqua, e di assegnarli
il dippiù in quello di Vado Cannito restando il
Cellito per intiero al Marchese e le due porzioni di
là dal fosso Villi, e quanto potea restargli
di porzione su quello di Vado Cannito per le
due terze parti.
Nel mostrare tal piano ai Cittadini àn preteso
di aver la terza parte in questi tre luoghi distinti
e separati fra loro. L'agente del Marchese all'incontro
pretende che il feudo sia uno solo considerato unito,
attenendosi al secondo articolo dell'ordinanza di farsene
tre parti di eguali bontà e valore e di assegnarne
alla Comune il feudo di Vado Cannito, come più vicino
all'abitato per la sua terza parte e di dare di qua dal
fosso di Villi una sola striscia per l'introduzione degli
animali all'acqua del fosso, che si rimettono in detta
vicinanza. Prevenendosi di più che l'estensione
di Vado Cannito è di moggia quattrocento-trentasei,
due quarte e tre quinte; quella del Cellito è di
moggia cento e sedici, due quarte ed una quinta; e finalmente
quella di Villi è di moggia centonovantuno tre
quarti ed una quinta. Si domanda il vostro oracolo ».
La faccenda
trovò una
soluzione
tra il 1833
e il 1843
col riconoscimento
agli abitanti
di Poggio
Umbricchio
dei loro
diritti e
al Marchese
Castiglione
delle proprietà realmente
acquisite.
La lunga
battaglia
archivistica
e legale
lascia stremati
i diversi
paesi già logorati
dalla lunga
lotta svoltasi
sulle
alture delle
montagne
circostanti
tra i francesi
e i borbonici
durante
il periodo
napoleonico.
Per circa tre
anni (1805-1808)
le
truppe francesi
e borboniche
si fronteggiarono
in una estenuante
guerra
di posizione
con grave danno
per le gracilissime
economie
locali.
Tra il 1807
e il 1808,
specialmente,
i Comuni
vuotarono le
casse
e le famiglie
le madie pur
di allontanare
dalle proprie
case
e dai propri
campi le rappresaglie
degli
opposti eserciti
e
dei numerosi
briganti,
utilizzati
or dall'uno
or dall'altro
contendente,
al fine di
piegarli
dalla loro
parte.
Dai conti comunali,
conservati
presso l'Archivio
di Stato,
appare con
chiarezza l'alto
costo
delle operazioni
militari,
senza quasi
alcun aiuto
da parte di
Ferdinando
IV.
Solo nel
1807 al Sindaco
di Padula
giunse un
modesto contributo
che Pietro
Di Michele
si
preoccupò di
girare ai legittimi destinatari e poi niente più.
Il 9 settembre
1807 per rifocillare
125
soldati francesi
che passarono
per Agnova,
il Sindaco
spese ben 22
ducati e 90
grana
su un introito
comunale di
appena quattro
ducati.
In precedenza
il Comune di
Altovia
(21
giugno 1807)
per 100
soldati aveva
speso 45 ducati
su un
introito di
22 e mezzo.
Il Sindaco
Donato di
Giosia della
Villa Cajano
dichiarò all'Intendente
di Teramo
di aver sborsato
in favore
delle truppe,
nel 1807,
ducati dieci
e grana dieci
su un'entrata
di otto
ducatie un
quarto. Più fortunato
fu il Comune
di Casagreca
che sela
cavò con
nove ducati,
nove carlini
e quattro
grana su
un introito
di tredici
ducati
e mezzo.
Giovan Antonio
Di Paolantonio,
Sindaco di
Comignano
spese diciotto
ducati e
sessantasei
grana (introito
ducati
ventuno e
grana diciotto
e tre quarti);
viceversa
il Sindaco
di Cortino,
Giovan Battista
Marini, in
un solo
anno (1808)
dovette elargire
in favore
dei francesi
ben 179 ducati
e mezzo su
un introito
di dodici
ducati e
trenta grana.
Nicola Austilij,
Sindaco di
Villa Elce,
pagò ventidue
ducati e
Ssessanta
grana (introito
undici ducati
e sessantasette
grana)
e Giorgio
Di Gianvitto
di Villa
Lame anticipò per
il Comune
cinquanta
ducati e
quaranta
grana perché le
entrate dell'Università non
superavano
i ducati
undici e
ottantatrè grana
Macchiatornella,
tramite il
Sindaco Gio:
Di Francesco,
il 20giugno
1807 consegnò ai
francesi
quarantasette
ducati e
ventisette
grana (introito
ducati ventinove
e grana cinquantasette).
Sempre nel
1808 Francesco
Marini, Sindaco
di Pagliaroli,
fucostretto
a
pagare, una
prima volta,
otto ducati
e cinquantasei
grana, e,
una
seconda volta,
ventuno ducati
e quarantatrè grana
e mezzo.
per le « truppe
francesi
e per tutti
gli altri
passati e
ripassati »,
dove negli « altri » bisognava
intendere « briganti » (introito
tre ducati
e ottanta).
Il Sindaco
di Padula,
Simone Di
Fortunato
nel 1808
dichiarò in
bilancio
che per causa
dei francesi
e dei briganti,
il Comune
aveva sborsato
cinquanta
ducati e
settanta
grana (introito
ducati sessantadue
e grana quindici),
madi Padulache
alla somma
si dovevano
aggiungere
altri centottanta
ducati
anticipati
dai diversi
cittadini
che in contanti,
in lavori
o importare
beni di prima
necessità si
erano adoperati
per soddisfare
alleono
stati
lando IV
più svariate richieste. Tra il 1807 e il 1808,
Gio: Andrea Spinucci, Sindaco di Pezzelle così dettagliò le
spese: « alla truppa francese residente in San
Giorgio per razione di pane, carne, vino, presutto, e
sale, carlini tre e novanta grana; e più alli
medesimi esso eletto per altra razione carlini ottanta;
e più per razione ad altra truppa (briganti
scritto in rosso al margine sinistro) di circa
sessanta soldati
e comandanti ducati dieci » (introito
ducati tredici).
Nello stesso
periodo i
sindaci di
Piano
Fiumato (Filippo
Di Gregorio),
di Servillo
(Gio: Carlo
Di Pasquale),
di Vernesca
(Gio:
Di Cesare),
di Tottea
(Giuseppe
Masci), di
Figliola
(Francesco
di Paolo),
di Cervaro
(Angelantonio
Ridolfi),
di Alvi
(Domenico
Palombieri),
di Aielli
(Giuseppe
Fragassi)
e
di Macchia
(Domenico
Cesarini)
per il rifornimento
delle
truppe francesi,
dell'esercito
regio, oltre
le scorrerie
dei briganti,
sborsa¬rono globalmente 701
ducati e 89 grana a fronte di un introito di ducati 535
e 61 grana e mezzo. Frattoli nel 1806, mentre era Sindaco
Leandro Bucciarelli, spese diciannove ducati, mentre
Cesacastina cento ducati a più riprese.
Un discorso
a parte meritano
Frattoli
e Valle Vaccaro
che in un paio
d'anni
vedono le proprie
economie
distrutte dall'occupazione
militare francese
e dalle incursioni
dei briganti.
Nonostante
l'impiego profuso
dai
diversi sindaci:
Giacomo Tulli
(1806),
Francesco
Alfonsi
(1807), Michele
Di Carlo (1808),
Gaetano
De Federicis
(1809)
e ancora Giacomo
Tulli (1810),Valle
Vaccaro
da una situazione
di quasi agiatezza
venne ridotta
alla
fame, mentre
a Frattoli
sembra
si accanissero
entrambi
i contendenti.
San Giorgio
era il quartier
generale
dei francesi.
Qui il 21
settembre
1807 venne
organizzata
un'operazione
congiunta
per snidare
i briganti
dai monti
circostanti.
Oltre 150
soldati
francesi
provenienti
da Montorio,
Frattoli
e Poggio
Umbricchio
puntarono
in direzione
di
Cortino,
ma quasi
senza esito,
poiché nell'unico
contatto,
che si ebbe
il 28
ottobre
1807 nella
Villa
Pantanella,
vennero catturati
pochi sbandati
di scarsa
importanza.
Ovviamente
non venne risparmiata
Senarica.
Il resoconto
del
Sindaco Ambrosio
D'Ambrosio
per l'esercizio
finanziario
1807-1808
non ha
bisogno di
commenti.
La povertà registrata all'inizio dell'Ottocento
si accentua ancora di più con
la nuova
sistemazione
amministrativa
e burocratica,
voluta dai
francesi.
Poggio Umbricchio
si vede inserito
in un
comprensorio
privo di una
qualsiasi dialettica
sociale,
economica e
culturale.
I ventotto
villaggi che
formavano l'antico
Comune di Crognaleto,
tra l'altro,
erano
poco estesi,
poveri e assai
distanti tra
di loro.
I terreni
utili per
l'agricoltura
non
erano in
grado
dì assicurare la sopravvivenza che per tre, massimo
quattro mesi l'anno. Spesso si legge nei verbali redatti
da Berardino Ciccone, incaricato della divisione dei
demani, espressioni di questo genere: « il
dippiù dell'alimento che gli bisogna se lo vanno
a provvedere fuori colle loro fatiche ed industrie ».
Le vie più battute erano quelle verso la campagna
romana, il piano Vomano e il Tavoliere delle Puglie,
al seguito della transumanza. Qualcuno si avventurava
anche nelle regioni dell'Emilia e della Romagna. Per
mancanza di risorse, sottolinea un altro verbale, i cittadini « sono
obbligati per altri nove mesi di spatriare per procacciarsi
il vitto rimanente ».
In genere
la popolazione
era costituita
da braccianti
e tagliatori
di boschi,
pochi erano
gli
uomini
che svolgevano
un lavoro
artigianale
qualificato
come sarto
(Macchia), « vaticali » (Alvi), « arcari » (Nerito)
o muratore.
Nel verbale
di Padula,
Berardino
Ciccane scrive: « il
territorio di detta Università per sua natura
gli è contraria la coltura, e dove si è tentato
coltivarlo è rimasto privo di quella
poca terra vegetabile per le irruenze delle
acque
piovane ».
« Tutto il territorio - è scritto
a proposito
di Tottea
- è sotto un clima alto che comprende balzi
e colline erte, vi alligna solo grano, segala e pochi
marzatici ».
Per quanto
riguarda
Senarica,
la
comunità dichiara
che « tutto il territorio è montagnoso ed
aspro, che abbraccia fossi e ripide colline, praticabili
solo in tempa d'està ».
Il commercio
era, quindi,
praticamente
nullo
tanto che
il 20 dicembre
1828 il
Sindaco
di Conino,
Eliodoro
Di
Felici, informò l'Intendente
della provincia
di Teramo
che nel suo
Comune
non si svolgeva
alcuna fiera.
Fano Adriano,
che pure
era un grosso
e antichissimo
centro, fino
all'unità d'Italia
non ebbe
alcuna fiera.
All'Intendente
di Teramo che
chiedeva notizie
di tipo economico
da inserire
nel « Giornale
dell'Intendenza »,
il Sindaco,
Desiderio
D'Innocenzo,
1'8 giugno
1842
rispose « non
si hanno fiere né mercati, non si hanno manifatture
e non vi sono artisti che meritano di essere riportati
nel giornale ufficiale per cui nessuna notizia posso
darle » spondevano
Egidio Referza
(1846), Marino
Sforza
1853) e Antonio
Longaretti
(1855). Quest'ultimo,
anzi, nella
responsiva
si chiedeva
come
mai al paese
non fosse
mai stata
accordata
alcuna
fiera. « Questo
Comune —
scriveva — a benché sito nelle vicinanze
delle montagne, pur essendo il miglior paese delle montagne
medesime e posto in amene pianure e con molti commodi,
per cui si farebbe gran concorso poiché sito al
centro di Comuni di Cortino, Crognaleto, Pietracamela
e Montorio e vi verrebbero ancora pizzicaroli di Civita
di Penne ed anche di codesta Provincia per acquistare
buoni formaggi. Qui vi è tutta la commodità per
i forestieri, nè vi manca il pane poiché vi è la
privativa coll'obbligo di non farlo mancare, vi è abbondanza
di vino in paragone agli altri paesi, buon
formaggio e buona carne, frutti ed altri generi.
Manca solo l'oglio
che si acquista in Montorio da vari venditori
a minuto, e vi sono anche degli alloggi ».
Più fortunata, se così si può dire,
risultò Valle
Castellana,
in quanto,
dopo
reiterati
e inutili
tentativi,
in
seguito all'interessamento
personale
di Giovanni
Monti,
ottenne il
permesso
di poter
organizzare
una annua
fiera a partire
dal 1835.
Quattro anni
più tardi,
nel 1839,
anche Crognaleto
vede
coronati
i suoi sforzi
con
l'istituzione
di una fiera
annuale
da celebrarsi
nella prima
domenica
di settembre,
nell'ampio « pianoro » di
Piano Roseto.
Alla domanda
presentata
l'anno prima
nessun Comune
aveva fatto
Obiezioni,
tutti
furono, in
linea di massima,
favorevoli,
anche
se non mancarono
alcune
riserve da
parte
dei sindaci
di Fano Adriano
e
Cortino.
Fano Adriano
e Cortino,
pur dichiarandosi
d'accordo,
tennero a evidenziare
alcuni dettagli « il primo
perché il luogo destinato per la celebrazione
della menzionata fiera è orrido e diminuirebbe
il concorso in quel comune nella festività del
protettore S. Valentino »,
ed il secondo
- concludeva
il Sindaco
di Fano
- perché il
luogo proposto
ai mercanti è « di pertinenza dí Cortíno
per la quale occupazione ha richiesto la quarta
parte dell'introito che ritrarrebbesi dall'indicata
fiera ».
Fortunatamente
per Crognaleto,
il Consiglio
d'Intendenza
non ritenne
giustificato
il dissenso
dei due Comuni
dichiarando
che « le
opposizioni
prodotte
dal Comune
di Fano Adriano
non sono
attendibili
perché oltre
ad essere
estranee
esse opposizioni
all'oggetto,
non è necessario
che alla
festività del
Santo Protettore
concorrano
gli abitanti
degli altri
Comuni. Considerando
che le pretenzioni
del Comune
di Cortino
per avere
il quarto
dell'introito
che si ritrae
da detta
fiera potranno
essere
esaminate
dopo che
la medesima
sarà stata
sovranamente
approvata ».
Il sindaco
Alfonsi di
Crognaleto
aveva, del
resto e molto
opportunamente,
sottolineato
nell'istanza
l'utilità della
fiera, soprattutto vista in prospettiva, in quanto essa
poteva essere animata dai commercianti dei « limitrofi
circondari di questa e della provincia dell'Aquila, non
meno che da quelli dello Stato Pontificio dalla parte
di Valle Castellana, formando tal luogo proposto il centro
del traffico di moltissimi Comuni per condursi nella
indicata Provincia ».
Il fatto
curioso,
per non dire
drammatico
si verificò quando,
avuta l'autorizzazione,
il Comune
si accorse
di non avere
i 27 carlini
e 4 grana
per pagare
il diritto
di concessione.
Anche in
quella occasione
Crognaleto
si salvò perché Michele
Ciccone,
Cancelliere
del Comune
di Valle
S. Giovanni,
si offrì per
anticipare
metà della
somma necessaria
per avere
il Regio
Exequatur.
Parallelamente
ai tentativi
di animazione
del commercio,
Poggio
Umbricchio
e con esso
le ville
del circondario
di Crognaleto
chiedono
l'istituzione
di scuole
pubbliche
statali,
poiché la Chiesa, dopo la confisca dei
beni secolari, non era più in
grado di
garantire
alcuna forma
di istruzione.
La lotta per
avere una scuola
fu assai
dura e per
alcuni paesi
inutile.
Ferdinando
I, come è noto,
non amava
le scuole,
le pratiche
si moltiplicavano,
i fascicoli
crescevano
di volume
e le
speranze
diminuivano.
A Tottea
si concede
di
avere una
scuola solo
nel 1828.
L'insegnante è don Michelangelo Forti, uomo colto
e di spirito liberale. All'Intendente di Teramo che rimproverava
uno scarso attaccamento alla dinastia da parte dei suoi
concittadini, il Sindaco di Crognaleto, nel 1834, gli
faceva rilevare che il Comune benché composto
dì numerose Ville non era dotato di alcuna scuola
né pubblica né privata, perciò,
concludeva « non vi può essere
associazione ».
Una risposta
analoga aveva
dato nel
1822 l'allora
Sindaco Pasquale
Spinozzi « sono a dichiararle che il parroco
di questo Comune non è maestro di scuola primaria,
nè vi è stato mai istallato in
questo Comune ».
Nel 1827
Giuseppe
Palmarini,
parroco di
Servillo,
ottiene l'autorizzazione
a istituire
una
scuola privata
nel Comune
di Cortino,
ma,
diffusasi
la
voce di
una
sua probabile
appartenenza
alle società segrete,
non gli viene
affidata
nonostante
il Regio
Giudicato
di Montorio
avesse
dichiarato
con una
sua informativa
del 3 maggio
1825 che « sebbene le voci sieno
che don Giuseppe Palmarini fosse ascritto alla
Setta, pure abbia conservato, come
conserva, una plausibile buona opinione, e
non che condotta morale e religiosa ».
Dieci anni
più tardi,
nel 1838,
ci riprovava
Gabriele
Di Antonio
con un'accorata
lettera,
anche se
si rendeva
conto delle
difficoltà.
A Cortino,
scriveva, « non
esistono
né il
maestro,
né la
maestra,
i quali
non sono
stati mai
nominati,
né istallati,
in primo
luogo perché il
Comune è poverissimo
e non può sopportare
la spesa
de' medesimi,
ed in secondo
luogo perché il
Comune è composto
di quindici
Ville,
tutte disperse
fra loro,
ed in conseguenza
vi vorrebbero
quindi
maestri
ed altrettante
maestre.
Cosa che
non può succedere,
all'incontro
ponendosi
uno solo,
avrebbe
il comodo
del maestro
quella
sola Villa,
dove esso
risiede ».
Nel Comune
capoluogo
la situazione
non era
diversa.
Nella seduta
del 23
marzo 1820,
il Consiglio
comunale
denunciava
la duplice
difficoltà di
procedere
alla terna
dei maestri,
cui affidare
la scuola
primaria,
e di scegliere
la località più idonea
allo scopo,
poiché le
Ville erano « disperse
per questi
luoghi
alpestri
di pessime
strade
e di case
a guisa
di Tugurij
pastorali
e dello
stato delle
famiglie
miserabili
per cui
non si
potrebbe
mandare
li ragazzi
alla scuola,
sì perché le
famiglie
non possono ».
Ciononostante
Vincenzo
De Angelis
scriveva
amareggiato
all'Intendente: « Questo è un
Comune
in cui è necessarissimo
il Maestro
per i giovinetti
e moltissimi
lo desiderano
per avere
un appoggio
per istruirsi,
ed in caso
diverso
a pochi
altri anni
non vi
sarà neppure
uno che
sappia
scrivere
il suo
nome».
In mancanza
di scuole
pubbliche
i parroci
locali
si disimpegnavano
nell'insegnamento
di quei
pochi fanciulli
che abitavano
vicino
alla Chiesa
in cambio
di un
tenue compenso.
A tutto
il 1855
a Crognaleto
non esiste
traccia
di scuola
primaria,
anche perché,
in precedenza,
nel 1852
un sovrano
rescritto
aveva vietato
ai parroci
l'insegnamento
nelle scuole,
e nel 1841
il Comune
non era
stato
in grado
di trovare
un
Maestro
di Agricoltura
teorica
e
pratica.
Nel 1856
il Vescovo
di Teramo,
in mancanza
d'altri,
propone
don Pietro
Latini
sacerdote
di Senarica,
ma il suggerimento
momentaneamente
cade
nel vuoto
a causa
delle gelosie
locali,
venne nominato
l'anno
successivo,
ma il Latini
fece sapere
di non
gradire
l'incarico
e
non prese
servizio.
Di maestre
per le
fanciulle
neanche
a parlarne.
Nel 1850,
l'Ispettore
Gaetano
Francese
scriveva
che non
esisteva
nella zona
una donna
idonea
all'insegnamento
delle fanciulle « di
quella alpestre montagna, ove i genitori colle figliole
negate a qualunque consorzio spendono la vita nell'ozio
beato degli antichi Patriarchi sotto la guida spirituale
e temporale del proprio Pastore e della Madre cristiana,
menandosi dai padri la maggior parte dell'anno o nelle
Puglie o nell'agro romano pel pascolo dei rispettivi
armenti ».
In una
situazione
sociale
così disarticolata,
economicamente arretrata e culturalmente sottosviluppata,
Poggio Umbricchio si raccoglie in sé, lasciando
ai giovani e ai meno anziani la possibilità di
imboccare la via della costa adriatica o quella più drammatica
dell'emigrazione
transoceanica. |