I briganti e la montagna

Allo scopo di porre riparo al grave danno subito, il Viceré convocò il consiglio di guerra e ivi vennero discussi i vari eventi, ricordando al Marchese di Santa Cristina i suoi consigli di usare l'artiglieria. La competitività delle truppe del Marchese era scarsa, e dopo essersi rammaricato di non aver mandato a combattere in prima fila gli italiani, per risparmiare così le vite spagnole, fu deciso che non poteva essere sostituito a causa delle difficoltà che il successore avrebbe dovuto affrontare nello stato attuale in cui si trovava la spedizione, e quindi gli fu ordinato di attaccare Montorio, e che gli fossero mandati da Pescara quattro cannoni, più uomini, armi e le munizioni necessarie , il consiglio prese così seriamente questa spedizione che designò come sostituto del Marchese di Santa Cristina il D. Alonso de Torrejòn, in caso il primo venisse meno.
Furono inviate al Marchese come rinforzo, due compagnie di spagnoli da 192 uomini e 80 italiani, otto artiglieri, un petardiere, due posamine, il Sergente Maggiore ingegnere D. Carlos Antonio Biancone , un chirurgo e la valigetta di soccorso, tutto ciò scortato da 50 cavalli e 30 fanti; il D. Alonso del Torrejòn y Penalosa ed il Maestro di campo D. Juan Simòn de Torres, lasciarono le loro rispettive attività per aiutare e consigliare il Marchese nelle riunioni di guerra.

Mentre questi preparativi si allestivano nel fronte spagnolo, nelle file dei banditi avveniva una scissione; il Capitano Raniero voleva trasferire la gente che era di guarnigione nella Torre di Escalona ma i suoi compagni non erano d'accordo e volevano aspettare il secondo attacco, dato che dal primo se l'erano cavata così bene. La discussione prese la piega della rivolta e fu deciso di abbattere la Torre e trasferire i banditi che la occupavano a Montorio, da dove nei giorni precedenti erano fuggite le loro donne accompagnate da altri 200 uomini con destinazione Poggio Umbricchio, luogo in cui vi erano provviste ed alimenti, e dove contavano di ritirarsi nel caso fossero costretti ad abbandonare Montorio. Provvisto ormai il Marchese di rinforzi, riprese a scaramucciare con i banditi che uscivano dalle loro case fortificate e, capitanati dai capi Santuccio, Domenico Antonio e Pompetta, andavano in giro commettendo gravi abusi nelle località circostanti.
Questa volta, si videro obbligati a rinchiudersi di nuovo ed a subire la perdita di alcuni compagni. I nostri soldati conquistarono diverse postazioni occupate dai banditi, tra cui Casòn, ben rafforzato con un fosso d'acqua profondo quattro palmi e largo sei, continuarono con gli attacchi verso la casa di Juan Bernardino Cola Raniero, che pare fosse necessario occupare per impedire la difesa ed i soccorsi che da essa potessero prestarsi alla casa di Titta Cola Raniero distante un tiro di schioppo dalla prima.
La casa di Juan Bernardino doveva essere così forte, che non si attaccò finchè non arrivò l'artiglieria che era rimasta a Giulianova, e una volta arrivata, le truppe si istallarono nel Casòn, piazzando in esso un cannone con una palla da 25 libbre e un altro da 12 libbre con cui armarono la batteria il (giorno) 20 aprile, e in seguito si iniziò a sparare con i cannoni sin dalle quattro del pomeriggio contro la casa e la torre del Bernardino proseguendo contemporaneamente con gli attacchi fino alle vicinanze della trincea che i banditi avevano fatto per coprire il piede della torre, e si continuò a combattere da entrambi i fronti con tanto rigore, che quella stessa notte due ore prima dell'alba, i banditi furono costretti non solo ad abbandonare quella casa, ma anche quella di Títta Cola Raniero, la Rocchetta e gli altri luoghi che avevano occupato in alcune colline fortificate dei dintorni; furono agevolati nella loro fuga dal buio della notte, e dalla pratica e la familiarità dei sentieri di quelle montagne.

Dopo aver costatato l'abbandono di queste case, le truppe s'impadronirono di esse, e le trovarono così ben provviste ed arredate, come se non temessero il pericolo di un'invasione, perché i banditi erano convinti, dice il Marchese, "che non sarebbe stato possibile portare l'artiglieria in quei posti che sembravano inaccessibili, e non avendo sperimentato fino ad allora la forza dei cannoni, dopo averla conosciuta, non ebbero la forza di resistere, anche se si erano premuniti e fortificati in modo tale da non sembrare opera loro la disposizione di quelle case, ed è certo, che se non fosse stata usata l'artiglieria, sarebbe costato molto più tempo e fatica occuparle".
In seguito fu disposto l'abbattimento di queste case, e, avendo appreso la notizia che i banditi si erano ritirati a Poggio Umbricchio, località distante quattro miglia e munita di una torre fortezza, alcune compagnie si incamminarono verso quella direzione e quattro di esse, con grande sforzo, riuscirono a superare il fiume Vomano; e avendo occupato alcune località nei pressi del Poggio, all'imbrunire del giorno 22, i banditi assalirono le truppe con una tale forza, che fu necessario tutto il loro valore per opporre resistenza.

La scaramuccia durò per più di tre ore, e fu necessario lanciare granate che fecero una strage tra i banditi, uccidendo e ferendo molti e obbligando i rimanenti a ritirarsi nel Poggio, dove si erano già incamminati il Marchese di S. Cristina ed il Maestro di Campo D. Alonso Torrejòn, con l'intenzione di assediare quella postazione, abbattere la torre e fare le altre operazioni necessarie.
Si discuteva sul fatto che i banditi avrebbero abbandonato anche questo rifugio, in cui avevano portato al riparo, le loro donne, pensando che avrebbero potuto subire gravi danni dall'artiglieria che era sita in Montorio, e quindi si cercava di assediarli e tagliar loro la strada, anche se la conformazione di quelle montagne e la destrezza dei banditi a camminare su quei precipizi, impraticabili per le truppe, rendeva difficile l'impresa.
Era Poggio l'ultima ritirata possibile per i banditi, dato che essendo occupate dalle guarnizioni tutte le postazioni dove si sarebbero potuti rifugiare, e abbattute tutte le case e le torri che fino ad allora erano servite come difesa, avrebbero dovuto prepararsi fortezze in alcune di quelle montagne o trasferirsi in altre province dove sarebbero stati perseguitati dalle squadre delle milizie.


In seguito a questo attacco si presentarono a Napoli i capi Salvatore Bianchini e Paolo lannetti con 76 banditi delle loro milizie, che aggiunti ad altri portati precedentemente, totalizzavano 312 nei loro covi.
Fu portata inoltre da Montorio una figlia di Titta Cola Raniero per strappare da quei luoghi ogni traccia di quella gente, e a Napoli attendevano l'arrivo di Ignazio Sbraccia e altri capitani con 100 compagni.
Il Capitano Signoriello, era uno dei più testardi e facinorosi, infatti affrontò in scaramucce una squadra di corte ai confini tra l'Abruzzo e la contea del Molise, dove fu ucciso un suo compagno e fu fatto prigioniero.
Un altro dei più importanti era il Capo Carlo Perillo (a) Ruina, che perlustrava la provincia di Lucera, e che fu ucciso dalle nostre truppe.
Poiché i banditi si erano ritirati a Poggio Umbricchio, dove avevano portato i loro beni, il Marchese di S. Crístina, si diresse con le truppe verso quella località per farli sloggiare da quella torre ed osteggiarli il più possibile, e per fare ciò si avvicinarono alcune compagnie che furono investite dai banditi con un indicibile coraggio; i nostri potettero resistere nonostante fossero in minoranza, fino all'arrivo delle forze che erano rimaste indietro a causa della piena del fiume Vomano.

Insieme iniziarono ad occupare postazioni ed a continuare gli attacchi fino a quando il 1 maggio, i banditi vedendosi accerchiati e comprendendo che le truppe erano ormai ad un tiro di schioppo da essi, fecero capire al Marchese che volevano arrendersi, e richiesero l'uso di tutte le condizioni dell'ordinanza Militare, chiesero un salvacondotto per inviare uno dei loro capitani a conferire con il Marchese.
La loro richiesta fu accolta e mandarono il capo Domingo Antonio Durante, uno dei principali, solo e disarmato.
Dalle condizioni poste per arrendersi, si può ben giudicare la loro presunzione, queste erano: che venisse detto loro il luogo dove sarebbero andati a servire e per quanto tempo; ciò supponeva che il castigo non sarebbe stato altro: che ognuno di loro potesse lasciare in Abruzzo un figlio, fratello o parente "per badare alle fattoria, dicevano loro, anche se era facile capire che era una scusa per continuare le loro scorribande non appena le truppe si fossero ritirate, e che fosse concesso loro un mese di tempo per sistemare i loro affari, a quanto pare molto numerosi.

La risposta del Marchese a queste pretese fu quella che in realtà meritavano: che unicamente poteva concedere loro il risparmio della vita e la galera, e che ormai non era più il momento di fare scelte, dato che appena fosse arrivata l'artiglieria non si sarebbero ammessi più malleabilità ne accomodamenti. Mentre tornò indietro con quella risposta poco consolatrice, la quale nonostante fosse drastica, non dovette far loro alcun effetto dato che poco tempo dopo inviarono un messaggio con le stesse proposte più altre nuove, come: che fosse tolto il sequestro e fossero restituite loro le fattorie; fossero liberati i loro parenti ed i loro compagni carcerati, e che fosse concesso loro il tempo di inviare a Napoli un Religioso che parlasse a nome loro al Marchese di Carpio per cercare di convincerlo a facilitare questi accordi.
A questa nuova pretesa risposero con un rifiuto offrendo solamente che in caso di resa, li avrebbe accompagnati a Napoli il Maestro di Campo D. Alonso Torrejòn, affinché chiedesse clemenza a loro favore, ma essi, lungi da accontentarsi, non appena videro l'artiglieria, diedero forte carica alle truppe che avanzarono immediatamente, guadagnando postazioni e iniziando a sparare l'artiglieria, costringendoli a rinchiudersi nella torre.
Così facendo arrivò la notte e, verso le tre di mattina iniziarono a fuggire per scarpate e dirupi di impossibile accesso per i quali molti di loro rotolarono, ed altri furono feriti ed uccisi dalle truppe. Le truppe si impadronirono del Poggio ed ivi trovarono le donne ed i bambini che erano le famiglie dei banditi.
La torre fu occupata dalla guarnigione e furono instaurate le difese necessarie e, l'artiglieria si ritirò a Montorio; le truppe s'incamminarono verso San Giorgio, località aperta e senza difesa, dove si erano recati i banditi; vedendosi ancora inseguiti, fuggirono anche da quel luogo lasciando altre donne che insieme a quelle già catturate furono portate a Montorio, da dove scrivevano ai banditi incitandoli a non prolungare oltre la loro resa.

500 fanti continuarono ad inseguirli in direzione di Valle Castellana, terra del Duca di Atri, finché una notte fuggirono tutti senza che si potessero avere notizie certe dei loro spostamenti, anche se si è appreso per certo che i capi più importanti si erano imbarcati; che molti di loro si incamminarono verso lo Stato Pontificio, e che i rimanenti erano fuggiti nella provincia dell'Aquila, e ciò risultò certo, dato che le truppe che assistevano quella provincia ebbero scaramucce con i banditi e dovettero ricorrere ai rinforzi.
Nella provincia di Chieti, già liberata dai banditi, rimase come Governatore D. Alonso de Torrejòn, e si poté congratulare con lui il Marchese del Carpio per il successo ottenuto, anche se manifestasse non essere molto soddisfatto del Marchese di S. Cristina, a cui, confessa, avrebbe mandato a servire nei presidi della Toscana per non aver mancato nelle cose essenziali e perché non aveva nessuno di cui servirsi.
Il Viceré non voleva ritirare tutte le truppe da quei luoghi, ma al contrario, lasciare delle guarnizioni nelle località principali così, per sicurezza, come per il compimento della pragmatica relativa alla demolizione di tutte le torri e le case fortezze che nel campo potessero essere rifugio di banditi, ma il Consiglio non condivideva queste misure, dato che ordinava al Marchese che le truppe ritornassero indispensabilmente al proprio battaglione di Napoli, "senza farle divertire né perderle in queste operazioni" e che per ciò che riguarda la pragmatica "troppa severità avrebbe potuto creare serissimi inconvenienti che in seguito avrebbero prodotto fastidi dannosi", concludendo infine che il Marchese non mettesse in atto la pragmatica senza prima rimetterla al Consiglio d'Italia da dove passerebbe allo Stato per essere corretta .

Il Marchese eseguì ciò che aveva deliberato il Consiglio, ritirando le truppe spagnole, non senza far notare che, senza il suo consenso non si sarebbe ottenuto niente e che le truppe non erano affatto decimate.
Il Consiglio, cercando di prenderlo da un altro lato accordò chiedergli una nota della destinazione dei beni negli ultimi due anni, per conoscere così, senza ferire la suscettibilità del Marchese, i costi della campagna, e dopo aver visto il risultato ottenuto da costui, fu mandato a fortificare Montorio o un altro punto della Provincia di Chieti che potesse essere invasa.
Riconosciute tutte le postazioni della provincia dall'ingegnere Biancone e dal capitano D. Diego Ramirez Balanza, scelsero Montorio per essere stata sempre "secondo racconta la storia: il luogo che nei tempi antichi e moderni avevano scelto i banditi come rifugio", e per aver dominato li e in tutto il territorio despoticamente la famiglia Cola Raniero per un periodo di 60 anni. Fu fortificata inoltre la Rocca di Roseto (v. piano j) che assicurava le valli di San Giovanni e Castellana, e difendeva le sue ville molto popolate.
Il costo di entrambe le fortificazioni era calcolato in 12.000 ducati e per cui sarebbe stato sufficiente il ricavato della vendita dei beni dei banditi, dato che solo la fattoria di Raniero aveva un valore di 36.000 ducati.
Si sarebbe dovuta sistemare una guarnigione di 100 spagnoli, 80 a Montorio e 20 a Roseto, lasciando spazio per poter aumentare le forze e mutando il gruppo ogni anno per evitare che i soldati si sposassero con gli abitanti del luogo.

Il Marchese trattò la cessione della Rocca di Roseto con il Duca di Atri che si dimostrò molto ben disposto e della rocca del convento di San Francesco con Sua Santità. I banditi, in seguito a tali provvedimenti diminuirono tanto di numero che il Duca di Alba affermava che nelle province della terra di Lavoro, in Otranto, Trani, Calabria citeriore, Abruzzo ulteriore, Capitanata e contea del Molise, non c'erano più banditi di nessuna specie; nell'Abruzzo citeriore ce n'erano 42 che si mantenevano traendo il necessario dallo Stato della Chiesa; nelle terre del principato citeriore vi era un solo condottiero che veniva continuamente perseguitato; nella Basilicata un capo con tre compagni; nelle terre del Principato ulteriore tre capi, e nella Calabria ulteriore due capi e sette compagni, tutti siciliani e si sperava di prenderli.
Non si sapeva se Santuccio con i suoi compagni si era imbarcato anche se era certo che si trovasse fuori dal Regno, e Juan Bernardo Raniero era venuto a Ujida con l'autorizzazione dei veneziani, per tre mesi, per reclutare gente ed andare a Roma a riscuotere i soldi che suo zio Juan Bautista aveva depositato ivi in una banca. Portava il distintivo di Sergente Maggiore, cosa che sembrò poco ragionevole al Marchese che scrisse di ciò al Cardinale Cibo, lamentandosi che si concedesse ciò, e puntualizzando inoltre che mentre a Roma erano poco considerati i suoi reclami, a Napoli accadeva un caso molto diverso.
Il cocchiere del Marchese di Ponicocolo investì la carrozza in cui viaggiava il Nunzio, trascinandola per alcuni passi ed il Nunzio mandò un avviso al Viceré in cui chiedeva che si castigasse il colpevole che fu subito malmenato e condannato alla galera e fu eseguita la sentenza con grande soddisfazione del Nunzio, che dalle sue finestre assisté insieme alla sua famiglia e applaudì molto questa forma di giustizia.

Continuando con costante impegno, alla fine il Viceré poté rendere conto al Consiglio della definitiva chiusura della campagna contro i banditi, assicurando che non ne fosse rimasto nessuno nell'Abruzzo né nelle altre province, dato che molti morirono negli scontri, altri furono squartati, altri morirono nel supplizio delle carceri, e quelli che si arresero furono rinchiusi nei covi di Napoli; gli altri non potendo resistere al pressante inseguimento che veniva loro fatto, fuggirono in altri stati, l'unico capitano che rimaneva nella provincia di Basilicata, chiamato Juan Arolto il cappucci no, nonostante cercasse di nascondersi, riuscirono a scovarlo nella casa del Vescovo di Melfi e fu portato carcerato a Napoli; tuttavia non mancava qualche consigliere che pensasse che "questa quiete non sarebbe durata a lungo, conoscendo il carattere di quei banditi". Anche se chiaramente l'esito ottenuto dal Marchese del Carpio fosse dovuto al suo animo coraggioso ed alla sua ferma volontà, cosa che fino ad allora non aveva raggiunto nessun Vicerè, il Marchese riteneva invece che fosse stato merito dello zelo del Maestro di Campo Torrejòn, visto che egli aveva esposto la sua vita più volte, aveva inoltre perso suo figlio, e per lui aveva chiesto il titolo di Sergente generale di Battaglia, anche se il Consiglio riteneva fosse degno solo del titolo di Generale dell'artiglieria ad Honorem. Infine, desideroso che il male non si riproducesse, il Marchese insisteva che il pericolo veniva dal fatto che risultavano accolti negli Stati della Chiesa e nei paraggi non lontano dai confini dell'Abruzzo alcuni capi e banditi fuggiti, tra questi si contavano Tito Cola Raniero, suo cugino Bernardino e Domenico Antonio Durante; si capiva che erano protetti da alcuni ministri del Papa, per cui le urgenti proteste inoltrate a Roma non diedero alcun risultato, nonostante fossero ben noti i luoghi dove erano rifugiati i banditi, la residenza che Raniero, Durante e i suoi compagni ebbero in Offida e Lingaglia; si seppe che il luogotenente di Ascoli sistemò i compagni di Santuccio e di Petralta; che il caporale Gaibullo ed i compagni di Pompetta e di Petralta qualche volta passarono i confini per rubare e che, avendo il governatore di Montalto scacciato le donne e i parenti dei banditi, che ivi si proteggevano, passarono a Macerata e Recanati, dove furono accettati non senza uno scandalo generale.
Tra gli innumerevoli successi della dominazione spagnola in Italia e di fronte alle diversità di giudizio sulla condotta delle nostre forze in quei luoghi , non si potrà negare a D. Gaspar de Haro Y Guzman il merito di aver ripulito dai banditi una provincia così infestata da essi come l'Abruzzo.