Gli Spagnoli e la distruzione seicentesca della montagna teramana

 

Il banditismo è un tema che continua ancora oggi a richiamare l’interesse degli studiosi, e non tanto per il fascino che alcuni protagonisti anche a distanza di secoli, continuano a sprigionare, quanto perché per fenomeni sociali così complessi e controversi anche le spiegazioni più sofisticate alla distanza risultano insufficienti.
Tra il sesto e settimo secole il fenomeno assunse in Europa proporzioni notevoli e di lunga durata. Ad alimentarlo contribuirono le classi sociali più deboli, come i contadini, gli emarginati, i disoccupati, ma anche i feudatari in disgrazia, i proprietari fondiari, oppressi dal fisco o distrutti dall'inflazione, i predicatori religiosi ai limiti della legalità, i progetti espansionisti degli avventurieri senza scrupoli ecc. Pertanto gruppi di diseredati lasciavano le proprie case, spesso pignorate, i rispettivi villaggi e con il favore di altri gruppi fuggivano in montagna o si davano alla macchia ingaggiando con il potere centrale lunghe azioni di logoramento. Quello napoletano della seconda metà del Seicento rientra in una casistica del tutto particolare che neppure applicando gli schemi dell'Hobsbawum o di Aurelio Lepre e di Rosario Villari si riesce a comprenderlo in quanto per più anni mise a dura prova sia il governo spagnolo sia le "università" locali. Gruppi di banditi si susseguivano ed altri gruppi e battaglioni di soldati napoletani si sovrapponevano ad altri con il duplice risultato di aggiungere dolore a dolore e miseria economica a miseria sociale. In proposito le cronache locali non lasciano dubbi e per quanto concerne l'Abruzzo teramano è sufficiente scorrere il diario delo Jezzi, di recente stampato per intero da Giorgio Morelli, per averne un'idea.


Le vicende che si verificarono in Abruzzo e segnatamente nel Teramano furono di gran lunga le più terribili a causa della sua posizione geografica e politica. Julian Paz nell'articolo che segue chiarisce le ragioni del vincitore e le difficoltà di ordine tecnico, logistico, ma anche politiche e internazionali che il viceregno si trovò a dover affrontare per aver ragione del banditismo. C'erano delle dif¬ficoltà d'ordine semantico anche nell'ambito del governo stesso. Chi erano i banditi e come dovevano essere trattati? Per alcuni consiglieri i banditi dovevano essere considerati come esponenti del malcontento di alcune categorie sociali, per altri erano dei rappresentanti tipici del ribellismo abruzzese da sconfiggere, ma da non umiliare eccessivamente perché potevano tornare utili in altre occasioni. Per altri infine le bande armate dovevano essere considerati dei soldati ribelli e come tali andavano puniti ed eliminati. Nella prima metà del Seicento, scrive J. Paz, prevalse nel Viceregno la concezione del marchese di Vélez secondo il quale, essendo i banditi molti forti e ben addestrati, in grado ci competere senza paura con le truppe regolari e di opposi¬zione, bisognava cercare in tutti i modi di recuperali. Per D. Pedro de Aragon il banditismo era un male irrimediabile, anzi era 1' espressione del "genio della nazione" presente in Abruzzo fin dal tempo dei Romani e pertanto difficilmente da estirpare. Il banditismo insomma era il male.

Altri invece consideravano il banditismo qualcosa di più di un male storico o endemico, ma un fenomeno eterodiretto che bisognava stroncare. Alcuni paventavano che dietro i banditi c'erano i Francesi i quali con i loro ambasciatori, presenti anche a Roma, favorivano le scorribande nel duplice scopo di tenere inquieto il Regno di Napoli e impegnato l'esercito spagnolo all'interno dell'Italia piuttosto che all'estero. Ovviamente non mancavano quelli che nel Consiglio d'Italia pensavano che i banditi erano diretti dalla grande feudalità nella regione e uno di questi non era altro che il marchese del Vasto. Purtroppo la Giunta di Napoli non poteva fare eccessivo affidamento sui baroni in quanto erano assai pochi quelli che allora o in passato non avevano mai avuto a che fare con i banditi. La scure del governo pertanto si abbatteva sui feudatari minori, e questo era un comportamento controproducente in quanto i timori di rivalità bloccavano qualsiasi iniziativa. Il Consiglio d'Italia consigliava i governatori locali di acciuffare i banditi a gruppi di otto o dieci alla volta e di inviarli verso i presidi dell'Africa o della Penisola, lasciando stare l'isola di Majorec che era già superaffollata. Ma anche qui c'erano dei problemi da superare in quanto gli inglesi si rifiutavano di trasportali sulle loro navi a qualunque prezzo e quindi bisognava servirsi di quelle pochissime spagnole; inoltre la Chiesa, attraverso il cardinale Cybo, si opponeva ad un loro trasferimento forzoso giudicandoli più utili porli al servizio della Repubblica di Venezia che ne aveva bisogno. Il superamento del banditismo del resto non era facile anche perché era in grado di autofinanziarsi attraverso il contrabbando e le complicità assai fiorenti tra l'Abruzzo e lo Stato della Chiesa. Il duca di Lanciano era uno dei più influenti protettori dei banditi. Aveva rapporti strettissimi con Santuccio di Froscia al quale assicurava aiuti, armi e protezioni e con molta probabilità intendeva servirsi di lui e dei suoi uomini per estendere la sua influenza in Abruzzo e nel Cilento.

I Viceré per combatterli spesso si servivano ma inutilmente dell' esperienza dei banditi spagnoli ed è emblematica a questo punto la storia capitata a due ex banditi di Valenza: uno fu ucciso e l'altro, dopo essere stato denudato fu costretto a baciare i piedi dei banditi abruzzesi che l'avevano fatto prigioniero prima di essere consegnato al Capitano spagnolo. Un salto di qualità nella concezione del banditismo si ebbe con l'avvento del Marchese del Carpio ma la sua proposta di impiegare l'esercito per snidarli definitivamente dall'Abruzzo all' inizio non incontrò il favore dei consiglieri. Essi temevano di sguarnire la città di Napoli senza per altro ottenere risultati apprezzabili in considerazione appunto delle difficoltà orogenetiche del terriorio abruzzese. L'uso dell' esercito contro i banditi era sconsigliato anche dal punto di vista politico in quanto significava legittimare la forza dei banditi. Pertanto nella seconda metà del '600 si scontravano due diverse linee, o usare l'artiglieria contro i banditi (Marchese del Carpio) o convincere le bande a porsi al servizio dei Veneziani (cardinale Cybo). Analoghe divisioni esistevano tra i capi briganti soprattutto in relazione alla strategia da adottare. Molti si opponevano all'idea del capitano Colaranieri di abbandonare le posizioni per trovare postazioni più sicure. Altri invece erano dell'avviso di aspettare gli spagnoli a Montorio al Vomano e di tenere libera la strada di Poggio Umbrucchio per l'eventuale ritirata. Le case di Titta Colaranieri, Giovan Berardino e di altri capi, nonostante la robustezza, non erano sufficientemente sicuri e di qui la necessità di cercare altri nascondigli per resistere agli assalti dell'artiglieria. Il Consiglio di Guerra napoletano in attesa di una decisione deliberò di costruire due fortezze: una a Montorio (iniziata nel 1686) e l' altra in provincia di Chieti e nello stesso tempo deliberò di ristrutturare la fortezza di Rocca Roseto in quanto da quella posizione si poteva controllare l'alta valle del Vomano, la Valle di S. Giovanni e la Valle Castellana. La spesa occorrente poteva essere recuperata ponendo all'asta i beni sequestrati ai banditi. Si stimò che solo la fattoria di Raniero valeva 36.000 ducati. Per l'acquisto del castello della Rocca Roseto il Marchese del Carpio s'intese con il Duca di Atri mentre per la cessione della rocca del convento di S. Francesco trattò direttamente con il Papa.


L'uso dell'esercito nella repressione del banditismo prevale nella seconda metà del Seicento per tutta una serie di considerazioni. Per il Marchese del Carpio il banditismo abruzzese, infatti, non era un fenomeno transitorio ma un elemento permanente di disgregazione sociale e politica, sfuggito al controllo del Viceregno e della grande feudalità. La lotta al banditismo abruzzese rivestiva un carattere di priorità perchè era orami certo che dietro i personaggi più autorevoli c'era la mano della Francia. Le vicende internazionali collegate alla rivolta masanelliana erano ancora vive. A tutti inoltre erano note le simpatie aquilane per le armi francesi e le posizioni della Chiesa in favore dei Veneziani. In terzo luogo il Viceregno non credeva più nelle possibilità di recupero dei banditi a fini istituzionali e nelle capacità finanziarie delle grandi famiglie feudali di fermare i banditi. Non esistevano che due strade: "la demolizione delle torri e delle case forti di campagna dal Vomano in qua" e la presenza di magistrati severi e credibili. In questa situazione politica, militare e culturale così complessa si consumò il dramma degli oltre 1.200 banditi teramani ed abruzzesi nascosti tra i paesi dei Monti della Laga e a nulla servì l'intermediazione dei francescani, richiesta da loro per una ritirata onorevole. Molti furono fatti prigionieri e condotti a Napoli, diversi riuscirono a riparare nelle vicine Marche e altri con a capo Santuccio di Froscia s'imbarcarono alla volta di Venezia al soldo di quella repubblica coprendosi di gloria nella guerra contro i Turchi. J. Paz attribuisce il merito dell'operazione al viceré D. Gaspare de Haro, Marchese del Carpio, ed è vero, ma dimentica di considerare il gravissimo danno che essa procurò alle strutture civile ed economiche della montagna teramana che proprio in quegli anni godeva di un certo sviluppo. Si pensi che a Tottea nel 1634 era stato istituito con il favore del vescovo aprutino il primo istituto teramano di credito sotto il nome di Monte di Pietà. La fine del banditismo comunque significò per Teramo, che aveva sopportato tutto il peso militare, due cose importanti: l'istituzione della Regia Udienza e di fatto l'erezione della città a capoluogo della provincia del I" Abruzzo Ulteriore e cioè dell'attuale provincia di Teramo.''